Gli hazara dell’Afghanistan tra asservimento, guerra ed emancipazione

    Pubblicato nel mese di novembre 2016 Antonio De Lauri GLI HAZARA DELL’AFGHANISTAN TRA ASSERVIMENTO, GUERRA ED EMANCIPAZIONE Introduzione 1 Molto prima che storici, africanisti, studiosi del commercio...

1092 0

 

 

Pubblicato nel mese di novembre 2016

Antonio De Lauri

GLI HAZARA DELL’AFGHANISTAN TRA ASSERVIMENTO,

GUERRA ED EMANCIPAZIONE

Introduzione 1

Molto prima che storici, africanisti, studiosi del commercio in schiavi o delle “nuove schiavitù” tracciassero gli attuali confini disciplinari e set-toriali, l’istituzione della schiavitù, nelle sue molte e differenti forme, è stata oggetto di trattazione umanista, giuridica e religiosa.2 Quasi sempre la riflessione era parte di più ampi studi che, trascendendo le frontiere geografiche e gli ambiti del sapere, erano dedicati alla natura umana, alla guerra, al senso del divenire storico nonché al rapporto uomo-dio. Nella maggior parte dei casi, comunque, gli illustri studiosi del passato, dall’an-tica Grecia 3 a Roma al Mediterraneo neo- cristiano, erano piuttosto lonta-ni 4 (seppur con eccezioni importanti) 5 da quella “propensione abolizioni-

1  La ricerca è stata supportata dallo European Research Council, European Union’s Sev-enth Framework Programme (FP7/2007-2013), G.A. 313737.

2  I riferimenti letterari richiamano Platone, Aristotele, Cicerone, Seneca, etc., e più tardi San Giovanni Crisostomo, Sant’Agostino (entrambi critici nei confronti del sistema schiavista) e i primi studiosi musulmani, alternando momenti di riaffermazione intellettuale/religiosa/ ideologica dello stato di natura liberi-schiavi a momenti di decostruzione critica finalizzati a delegittimare la schiavitù.

3  Platone disponeva egli stesso di schiavi, Aristotele considerava lo schiavo un “oggetto con l’anima”.

4  Si vedano J. Andreau – R. Descat, Gli schiavi nel mondo greco e romano, il Mulino, Bo-logna, 2009 [2006]; M. Bloch, La servitù nella società medievale, La Nuova Italia, Firenze, 1993 [1975]; D.B. Davis, Il problema della schiavitù nella cultura occidentale , Società Editrice Internazio-nale, 1975 [1966]; M.I. Finley, Ancient Slavery and Modern Ideology, Expanded Edition Edited by B.D. Shaw, Markus Wiener, Princeton, 1998; R. Schalaifer, Greek Theories of Slavery from Ho-mer to Aristotle, «Harvard Studies in Classical Philology», 47, 1936, pp. 165-204; M. Sordi, Paolo a Filemone o della schiavitù, Jaka Book, Milano, 1987.

5  Pur non mettendo in discussione l’istituzione della schiavitù/servitù, Seneca esprimeva nelle Lettere a Lucilio un sentimento di vicinanza verso i servi scrivendo nell’incipit dell’Episto-la 47(1): «Sono venuto piacevolmente a conoscenza, da coloro che provengono dalle tue parti, che vivi con i tuoi servi come in famiglia: questo comportamento si confà alla tua saggezza e alla tua istruzione. “Sono schiavi”. No, sono uomini. “Sono schiavi”. No, vivono nella tua stessa sta” 6 che si sarebbe affermata solamente a partire dal Diciottesimo/Di-ciannovesimo secolo. Verso la metà del Ventesimo secolo, e in particolare con gli studi condotti in ambito statunitense, il tema della schiavitù diven-ne sempre più oggetto di vera e propria trattazione accademica fino a set-torializzarsi con gli sviluppi degli anni Settanta e Ottanta. Ciò comportò una qualche conseguenza specialistico-riduzionista: con l’accrescere della precisione del dato (numeri, date, documenti…), per dirla in altre parole, sembrava venir meno in una certa misura l’ampiezza del ragionamento.7 La schiavitù rimane infatti un fenomeno con implicazioni ben più vaste della portata etnografica e quantitativa delle sue diverse manifestazioni passate e presenti. Che un essere umano possa essere ridotto in condizioni di schiavitù e che vi siano stati, e ancora oggi vi siano, strumenti ideologici per legittimare questo semplice e brutale fatto, è una questione che inter-roga non soltanto i sistemi politici ed economici, ma soprattutto i modi in cui gli esseri umani tentano di affermare la propria umanità e di negare quella altrui (questione che, peraltro, collega in profondità il fenomeno delle forme di asservimento alla dimensione culturale). Da qui, per esem-pio, la necessità di ribadire lo stretto legame tra schiavitù e guerra. Del resto, come ha scritto Henry Bayman, «nella storia mondiale la schiavitù è sorta per rispondere al problema del cosa farsene dei prigionieri di guer-ra».8 Ma a tale equazione, in questa sede, va aggiunto un terzo elemento, ossia il desiderio di emancipazione collettiva da condizioni di schiavitù e oppressione. In questo articolo mi propongo infatti di riflettere sulla par-ticolare storia degli hazara dell’Afghanistan al fine di indagare il legame cruciale che intercorre tra politiche di asservimento, guerra ed emanci-pazione collettiva. Si tratta, almeno in parte, di inoltrarsi sul terreno di alcuni dibattiti fondamentali che impegnano le scienze umane e sociali in maniera trasversale e che sono sì fortemente condizionati da variabili so-cio-culturali ma che, nondimeno, trascendono il “localismo”: quale prezzo è disposto a pagare un gruppo sociale per emanciparsi da una condizione di asservimento nei confronti di altri gruppi? In che misura, dal punto di vista di un individuo o gruppo sociale, la guerra può essere considerata un

casa. “Sono schiavi”. No, umili amici. “Sono schiavi”. No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro».

6  Sull’abolizionismo si vedano per tutti S. Drescher, Abolition. A History of Slavery and Antislavery, Cambridge University Press, Cambridge, 2009; The End of Slavery in Africa, a cura di S. Miers, R. Roberts, University of Wisconsin Press, Madison, 1988.

7  È opportuno sottolineare, comunque, che tali analisi “settoriali” hanno fornito dati utili per lavori di più ampio respiro come, per esempio, O. Pétré-Grenouilleau, La tratta degli schi-avi. Saggio di storia globale, il Mulino, Bologna, 2006 [2004].

8  H. Bayman, The Secret of Islam. Love and Law in the Religion of Ethics, North Atlantic Books, Berkeley, 2003, p. 134. Per quanto riguarda il rapporto tra schiavitù e guerra il caso dell’India presenta particolarità degne di nota; si veda per esempio P.G. Solinas, Colore di pelle, colore di casta. Persona, rituale, società in India, Mimesis, Milano, 2015 (in particolare il capitolo II, Casta e schiavitù. Esiti alternativi o gradi di variazione nella dipendenza?).

“passo avanti” rispetto a una situazione di schiavitù o marginalità estrema? Cosa implica, in termini di costruzione di un futuro sociale, un’emancipa-zione attraverso la violenza collettiva?

Gli hazara e la schiavitù

Nella prima metà del Diciottesimo secolo le popolazioni afgane si op-posero ai safavidi conseguendo sempre maggiori vittorie in battaglia. Una svolta fondamentale, però, si ebbe nel 1747 quando, alla morte di Nadir Shah,9 Ahmed Khan venne nominato da una loya jirga (la “grande assem-blea”) reggente delle confederazioni pashtun.10 Ahmed Khan passò alla sto-ria come durr-e durran (“perla delle perle”) e anche la confederazione cui apparteneva prese il nome “durrani”.11 Il 1747, dunque, viene considerato l’anno di nascita dell’Afghanistan, anche se dovette trascorrere molto tem-po prima che una forma statale più o meno identificabile, quale l’Afgha-nistan che oggi conosciamo, facesse la propria comparsa. Ahmed Khan, il quale cambiò successivamente titolo in Ahmed Shah, controllava un regno che non poteva definirsi, infatti, uno Stato vero e proprio. Era il consen-so delle tribù che, in quanto prodotto di alleanze politiche, conferiva ad Ahmed Shah la possibilità di regnare all’interno di un contesto facilmente “infiammabile”.12 Come sempre accade, comunque, anche in questo caso la profondità storica degli intrecci etnico-regionali, delle forme di contatto e di oppressione, così come delle scelte di organizzazione politica collettiva vanno ben oltre la data di nascita dell’Afghanistan. Come ha scritto Gian-roberto Scarcia,13 l’Afghanistan non è, «neppure alla lontana, uno stato na-zionale: è un piccolo impero multicolore, formato e mantenuto tale dalle vicende storiche, unitamente alla posizione geografica». In senso ristretto, il termine “afgani” è stato utilizzato dai gruppi di lingua persiana (ma più in generale dalle minoranze etnico-linguistiche) per indicare i pashtun,14 ma l’Afghanistan è abitato da numerosi altri gruppi di lingua uzbeka, turkme-

9  Nadir Shah Afshar, re di Persia dal 1736 al 1747, respinse numerose scorrerie afgane. La sua morte, di fatto, aprì la strada alla nomina del primo sovrano dell’Afghanistan da parte delle tribù pashtun.

10  Popolazioni nomadi o seminomadi la cui presenza sul territorio afgano risaliva con ogni probabilità al Sedicesimo secolo.

11  Sulla dinastia dei durrani si veda per esempio C. Nöelle, State and Tribe in Nine-teenth-Century Afghanistan. The Reign of Amir Dost Muhammad Khan (1826-1863), Routledge, London, 1997.

12  A. De Lauri, Afghanistan. Ricostruzione, ingiustizia, diritti umani, Mondadori, Milano,

2012, p. 123.

13  G. Scarcia, “Prefazione”, in Poesie afghane contemporanee. Un percorso tra le vie della cono-scenza, a cura di A. De Lauri, L’Harmattan, Torino, 2005, p. 10.

14  M. Kieffer, “Afghan”, Encyclopaedia Iranica, 1983, testo disponibile al sito www.irani-caonline.org.

na, etc., per cui, per estensione, il termine “afgani” è venuto nel tempo a in-dicare l’insieme degli abitanti dell’Afghanistan. La complessa articolazione socio-demografica di questo paese, a ogni modo, rimane un tratto distin-tivo che ancora oggi influenza politiche locali e nazionali. Nel 2007 Elisa Giunchi 15 scriveva che, su una popolazione di circa 22 milioni di abitanti, si stimava la presenza di circa 50 gruppi etnici e una trentina di lingue parlate. Ma le statistiche sono sempre in evoluzione e oggi le stime parlano di una popolazione di circa 33 milioni di residenti.16 All’interno di questo vibrante e mutevole scenario gli hazara rappresentano una consistente, seppur de-cimata rispetto al passato, porzione di popolazione (circa il 9%), perlopiù collocata nella zona dell’Hindu Kush a ovest di Kabul, l’Hazarajat.

Gli hazara sono una popolazione a maggioranza sciita di lingua per-siana (le due lingue ufficiali dell’Afghanistan sono il dari – persiano – e il pashtu).17 Quali effettivamente siano le loro origini è tema assai dibattuto tra storici e scienziati sociali.18 Alessandro Monsutti ha ricordato che tra gli hazara circolano soprattutto tre ipotesi: la prima stabilisce che si tratta di un gruppo discendente dai mongoli (o turco-mongoli) e forse direttamen-te dalle armate di Gengis Khan; la seconda ipotesi privilegia l’elemento di autoctonia degli hazara, per cui essi sarebbero stati presenti nella regione già prima delle invasioni indo-europee (2000-1500 a.C.); la terza ipotesi, che potremmo definire “realista”, si concentra sulle differenti ondate migrato-rie che avrebbero portato alla formazione di insediamenti hazara con dif-ferenti origini.19 Al di là della diatriba innescata da queste ipotesi e dal loro “significato culturale” posizionato, è importante ribadire che ogni dibattito sulle origini etniche è comunque destinato a dissolversi sul terreno della processualità storica nella misura in cui incroci e contaminazioni cultura-li hanno come esito quello di destrutturare e ristrutturare ogni elemento che potremmo ritenere “caratterizzante” dando forma a fenomeni sociali che gli antropologi hanno tendenzialmente descritto attraverso la metafora dell’ibridismo (culturale, linguistico…).

Del resto la storia diventa particolarmente utile soprattutto allorché occorra legittimare, giustificare o semplicemente spiegare qualcosa di ri-levante nel presente (o nel futuro). Nel maggio 2013 un procuratore (sa-ranwal) hazara a Kabul mi disse: «La nostra è in primo luogo una storia di persecuzione. La sofferenza che abbiamo subito nel passato ci unisce anco-

15  E. Giunchi, Afghanistan. Storia e società nel cuore dell’Asia, Carocci, Roma, 2007.

16  www.worldpopulationstatistics.com.

17  La convivenza culturale e linguistica tra il mondo persiano e quello pashtun ha una sto-ria complicata; si veda al riguardo G. Vercellin, Iran e Afghanistan, Editori Riuniti, Roma, 1986.

18  Si vedano per esempio E.E. Bacon, The Inquiry into the History of the Hazara Mongols of Afghanistan, «Southwestern Journal of Anthropology», 7, (3), 1951, pp. 230-247; A. Monsutti, “Hazara. History”, Encyclopaedia Iranica, 2012, testo disponibile al sito www.iranicaonline. org; S.A. Mousavi, The Hazara of Afghanistan. An Historical, Cultural, Economic and Political Study, Palgrave, Richmond, 1998.

19  A. Monsutti, “Hazara History”, cit.

ra oggi». Affermazioni di questo tipo sono piuttosto comuni in Afghanistan e nella diaspora hazara; nel marzo 2013 un afgano hazara residente a Ber-lino mi ribadì quanto dura fosse stata l’esperienza talebana, «in particolar modo per noi hazara, che già in passato eravamo stati ridotti in schiavitù dai pashtun». Nella lingua dari il termine usato per indicare la schiavitù è bardagi (lo schiavo è barda), mentre i pashtun utilizzano più frequentemen-te ghulami (ghulam 20 per indicare uno schiavo). La difficile reperibilità di do-cumenti e testi al riguardo, comunque, permette di affrontate la storia della schiavitù in Afghanistan in maniera perlopiù frammentaria. Tale scarsità di fonti è a mio avviso riconducibile alla specificità del contesto centro-asia-tico piuttosto che all’influenza islamica, come molti ritengono. Benjamin Hopkins, per esempio, ha scritto che la schiavitù in Asia Centrale era anco-ra un’attività vivace agli inizi del Diciannovesimo secolo sebbene l’esigua letteratura al riguardo indurrebbe a pensare altrimenti. Secondo Hopkins ciò sarebbe legato a tutta una serie di sotto-studiate questioni connesse alla schiavitù nel mondo musulmano.21 È opportune sottolineare, tuttavia, che gli studi sulla schiavitù nel mondo musulmano 22 sono stati piuttosto ampi, soprattutto se confrontati alle ricerche condotte in altri contesti. Come ha ricordato William Gervase Clarence-Smith, cristianesimo e islam hanno storicamente attirato un’attenzione sproporzionata rispetto a giudaismo, animismo, buddismo, giainismo, induismo e confucianesimo.23

Ora, per quanto la schiavitù e, più in generale, le politiche di asservi-mento non siano state sufficientemente analizzate nella storia dell’Afgha-nistan, queste hanno sicuramente giocato un ruolo importante nel conte-sto delle relazioni interetniche, nel succedersi delle diverse dinastie nonché nel processo di formazione dello Stato afgano. Nella seconda metà del Diciannovesimo secolo Abdur Rahman (emiro dal 1880 al 1901), con lo scopo di centralizzare il potere e controllare le aree ancora autonome, in-traprese una campagna militare nell’Hazarajat favorendo la penetrazione di nomadi pashtun e inasprendo le relazioni tra sciiti e sunniti. La guerra di Abdur Rahman nell’Hazarajat comportò un elevato numero di vittime e l’asservimento di diverse famiglie hazara. Le terre vennero confiscate e 20  Ghulam in arabo significa servo o giovane; il termine era anche usato, nell’impero Ot-tomano per esempio, per indicare uno schiavo-soldato.

21  B.D. Hopkins, Race, Sex and Slavery: Forced Labour in Central Asia and Afghanistan in the Early 19th Century, «Modern Asian Studies», 42, (4), 2008, pp. 629-671.

22  Su islam e schiavitù si vedano tra gli altri F. Abdallah, Islam, Slavery, and Racism: The Use of Strategy in the Pursue of Human Rights, «The American Journal of Islamic Social Sciences», 4, (1), 1987, pp. 31-50; W.G. Clarence-Smith, Islam and the Abolition of Slavery, Hurst&Co, 2006; C. El Hamel, Black Morocco: A History of Slavery, Race and Islam, Cambridge University Press, Cambridge, 2013; B.K. Freamon, Slavery, Freedom, and the Doctrine of Consensus in Islamic Juris-prudence, «Harvard Human Rights Journal», 11, 1998, pp. 1-64; D. Pipes, Slave Soldiers and Islam. The Genesis of Military System, Yale University Press, New Haven, 1981.

23  Antonio De Lauri interviews William Gervase Clarence-Smith, intervista disponibile al sito web www.shadowsofslavery.org.

molti furono venduti a Kabul 24 dove furono impiegati perlopiù in qualità di servi domestici. Da Kabul alcuni vennero spostati nuovamente, come si evince per esempio dalla lettura dei “Diaries of Kandahar”. Hazaras in the View of British Diaries (1884-1905).25 Apprendiamo qui che, nel 1891, l’emiro ordinò l’invio di 1300 prigionieri hazara a Kandahar affinché fossero distri-buiti come schiavi ai pahstun barakzai, alikozai e nurzai. Sebbene Abdur Rahman avesse bandito la schiavitù sul finire del Diciannovesimo secolo,26 proprio quando il “grande gioco” (o il “torneo delle ombre”) cominciava a spostarsi verso Est, molti hazara rimasero di fatto schiavi fino a quando Amanullah, nipote di Abdur Rahman, abolì la schiavitù prima con un de-creto nel 1921 e poi con la Costituzione approvata nel 1923, la prima nella storia del paese.27 Ciò non significava, tuttavia, che dinamiche di riduzione in schiavitù fossero destinate a sparire. Piuttosto, l’asservimento di natura etnico-politica e religiosa (legato a logiche di centralizzazione del potere) andava a intrecciarsi in maniera sempre più evidente a squilibri sociali di natura economica.28 L’asservimento degli hazara ha storicamente avuto carattere multiforme restando un fenomeno in bilico tra la persecuzione religiosa e politica, una normativa opaca o assente 29 e una regolamenta-

24  T. Barfield, Afghanistan. A Cultural and Political History, Princeton University Press, Princeton, 2010; S. Wahab – B. Youngerman, A Brief History of Afghanistan, Infobase Publish-ing, New York, 20102.

25  Disponibili online al sito web www.hazara.net

26  Nella memoria collettiva degli hazara la figura di Abdur Rahman è strettamene legata alla persecuzione e all’asservimento politico e religioso. Il fatto che l’emiro bandì la schiavitù induce a considerare ancora una volta l’influenza che il “grande gioco” esercitava sulle vicende interne. È plausibile infatti ipotizzare che l’Inghilterra abolizionista non vedesse di buon occhio il commercio interno di schiavi in Afghanistan e, considerato il mutare degli interessi inglesi e russi, tra un’Asia Centrale ormai zarista e l’Inghilterra proiettata verso Cina, Mongolia e Tibet, le risorse diplomatiche di Abdur Rahman sembravano scarseggiare. È simbolicamente interes-sante osservare che proprio suo nipote, Amanullah, che promulgò la prima Costituzione nella storia dell’Afghanistan e abolì la schiavitù e il lavoro forzato, fu anche “l’eroe dell’indipenden-za” nel 1919. Inoltre, alle influenze esterne si aggiungevano le pressioni politiche che il governo di Rahamn riceveva dall’interno (su questo aspetto si veda per tutti H.K. Kakar, Government and Society in Afghanistan. The Reign of Amir ‘Adb al-Rahman Khan, The University of Texas Press, Austin, 1979.

27  Sul costituzionalismo afgano si veda A. De Lauri, Afghanistan, cit.

28  Con l’affermazione del regime talebano negli anni Novanta del Ventesimo secolo, l’el-emento di persecuzione etnico-politica, nonché religiosa, venne recuperato con vigore, soprat-tutto a danno della popolazione hazara, ri-politicizzando le tensioni sociali tra i diversi gruppi.

29  Si tenga conto che la volontà centralizzatrice di Abdur Rahman si estese anche all’am-bito giuridico-normativo; si deve proprio all’emiro la prima opera di statalizzazione del potere giudiziario. Le sue riforme si iscrivevano in un processo di reislamizzazione statale con l’inten-to di affermare la shari’a a discapito delle norme consuetudinarie (su questi aspetti si veda A. De Lauri, Entre loi et coutumes. L’interconnexion normative dans les cours de justice de Kaboul, «Di-ogène», 239-240, 2012/2013, pp. 66-85). Tuttavia il ricorso alla giurisprudenza islamica, nel caso della schiavitù, è sempre stato controverso poiché sebbene questa potesse fornire legittimazi-one giuridica in certe condizioni agendo come “forza di conservazione”, per molti storici e/o

zione interna non del tutto definita. Una situazione, del resto, non unica nella regione. Non a caso, come ha sottolineato Hopkins,30 la schiavitù in Afghanistan, come in altre aree dell’Asia Centrale,31 non era sempre di-stinguibile dalla persecuzione politica o dal dislocamento forzato. Parlando della schiavitù in Afghanistan taluni riferiscono di un fenomeno raro, altri sottolineano quanto fosse in conflitto con il codice di comportamento dei pashtun, il pashtunwali, che celebra l’autonomia e l’indipendenza dell’indi-viduo.32 Le memorie della diaspora hazara,33 che attraversano diversi regni e regimi, unite ai racconti e ai canti in patria, narrano comunque di una politica di asservimento protrattasi per molto tempo ed esercitata, anche in precedenza, non solo dai pashtun, ma dagli uzbechi e dai turkmeni: «giù nel regno di Amir Sher ‘Ali Khan,34 uzbechi e turkmeni schiavizzano gli ha-zara e li vendono in Asia Centrale».35

Il fenomeno della schiavitù nelle terre che oggi chiamiamo Afghanistan non è limitato, in ogni caso, alle politiche di assoggettamento degli haza-ra. La schiavitù era presente nei regni che precedettero l’ascesa di Ahmed Khan nel 1747 così come nelle altre aree sulle quali si estese poi il “pugno di ferro” 36 di Abdur Rahman. Nella regione nota come Kafiristan (“ter-ra degli infedeli”), che l’emiro conquistò, convertì e ribattezzò Nuristan (“terra della luce”), la popolazione viveva in villaggi situati ai piedi delle colline all’interno dei quali vigeva una linea di demarcazione tra “tribali” e

studiosi di diritto islamico l’impatto dell’islam sulle società schiaviste ha avuto principalmente un effetto emancipatorio.

30  B.D. Hopkins, Race, Sex and Slavery, cit., p. 642.

31  Sull’Asia Centrale si vedano anche A.H. Dani – V. Mikhailovich, History of Civilizations of Central Asia. Development in Contrast: From the Sixteenth to the Mid-Nineteenth Century , UNES-CO Publishing, 2003; R. Grousset, The Empire of the Steppes: A History of Central Asia, Rutgers University Press, New Brunswick, 1970.

32  M. Elphinstone, An Account of the Kingdom of Caboul, and Its Dependencies in Persia, Tar-tary, and India, Hurst, London, 1815; B.D. Hopkins, Race, Sex and Slavery, cit.

33  Sulla diaspora hazara si vedano per esempio S.H. Changezi – H. Biseth, Education of Hazara Girls in a Diaspora: Education as Empowerment and an Agent of Change, «Research in Com-parative and International Education», 6, (1), 2011, pp. 79-89; N. Ibrahimi, Shift and Drift in Haz-ara Ethnic Consciousness. The Impact of Conflict and Migration, «Crossroads Asia – Working Papers Series», 5, 2012; A. Monsutti, Guerres et migrations: réseaux sociaux et stratégies économiques des Hazaras d’Afghanistan, Institut d’ethnologie, Neuchâtel, 2004; Z. Olszewska, Quetta’s Sectarian Violence and the Global Hazara Awakening, «Middle East Report», 43, 2013, testo disponibile al sito www.merip.org; D. Phillips, Wounded Memory of Hazara Refugees from Afghanistan. Remem-bering and Forgetting Persecution, «History Australia», 8, (2), 2011, pp. 177-19 ???

34  Emiro dell’Afghanistan dal 1863 al 1866 e dal 1868 al 1979, anno della sua morte.

35  M.H. Kakar, A Political and Diplomatic History of Afghanistan, Brill, Leiden, 2006, p. 126.

36  Questa espressione generalmente utilizzata per narrare la vicenda politica dell’emiro ha in sé qualcosa di paradossale se si considera che, a causa di una malattia che lo accompagnò nel suo periodo di governo, Rahman arrivò a perdere l’uso di piedi e mani; si veda J. Lee, ‘Abd al-Rah.mān Khān and the ‘maraz. ul-mulūk’, «Journal of the Royal Asiatic Society», Third Series, 1,

(2), 1991, pp. 209-242.

“non-tribali”, una distinzione che corrispondeva grosso modo alla divisione della società in liberi (atrogen) e schiavi ( borjan).37 Questi ultimi erano divisi a loro volta in bari e showala e potevano essere artigiani o domestici. Erano di proprietà delle famiglie ed erano stati schiavizzati dai kafiri durante le guerre. La posizione degli schiavi-artigiani era migliore poiché disponeva-no di proprietà ed erano molto importanti per la comunità per via delle loro capacità in quanto carpentieri, conciatori, tessitori, etc.38 La violenta conquista a opera di Abdur Rahman sovvertì rapidamente l’ordine sociale dei kafiri e poco si sa sulla “sopravvivenza” di certe pratiche e certe struttu-re sociali (ufficialmente gli schiavi vennero liberati).

“Schiavi” in guerra

Il sito web www.hazararights.com contiene una lettera, disponibile in più lingue e firmata da poeti di tutto il mondo, indirizzata al Segretario Ge-nerale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, al Presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso e al Presidente degli Stati Uniti Barack Oba-ma in cui si legge, tra il resto:

Dopo più di un secolo di crimini sistematici come il genocidio, la schiavitù, gli abusi e le violenze sessuali, i crimini di guerra e le discriminazioni, essere hazara appare ancora oggi un crimine in paesi come l’Afghanistan e il Pakistan. […] Nel corso di questo secolo hanno sofferto il genocidio e la schiavitù e sono stati ob-bligati con la violenza ad abbandonare le loro terre, situate nel sud del moderno Afghanistan. Più del 60% di questa popolazione è stata uccisa e migliaia di loro sono stati venduti come schiavi. L’intera storia del XX secolo in Afghanistan è stata contrassegnata dalle uccisioni e dalle discriminazioni nei confronti di questo popolo.

Per quanto non tutti gli hazara abbiano conosciuto la schiavitù, le poli-tiche di asservimento occupano una posizione centrale nella rappresenta-zione interna ed esterna di questa popolazione. Nel lungo raggio dell’oriz-zonte storico la vicenda degli hazara corrisponde prevalentemente a una storia di persecuzione ma anche, in parallelo, di emancipazione attraverso la guerra (fatta per difendersi e reagire o per sfuggire alla povertà). Per controllare l’Hazarajat lo stesso Abdur Rahman dovette impegnarsi in più battaglie e lungo tutto il Ventesimo secolo i conflitti di varia natura marto-riarono a intermittenza le aree a maggioranza hazara con conseguenti fasi di emigrazione massiccia verso le città principali e i paesi confinanti. Con il colpo di Stato del 1978 le ondate migratorie si intensificarono drammati-camente facendo di Quetta un importante centro per la comunità hazara. Verso la metà degli anni Settanta nell’Hazarajat vi fu un tentativo di or-

37  M.H. Kakar, A Political and Diplomatic History of Afghanistan, cit., p. 142.

38  Ivi, p. 146.

ganizzazione politica regionale attraverso la Shura-e ittefaq, inizialmente concepita come punto di riferimento dei movimenti di resistenza con l’o-biettivo di riunire i diversi gruppi che agivano autonomamente, spesso in conflitto tra loro. Quando la Shura venne istituita la leadership fu in buona parte composta da sayyid. Questi ultimi, considerati discendenti del profe-ta, molti dei quali senza una specifica formazione religiosa, formavano una sorta di rete in tutto l’Hazarajat fungendo da mediatori in tempo di pace e da supporto ai leader in tempo di crisi. La Shura si diede presto un’organiz-zazione di tipo “statale”, particolarmente rigida per quanto riguardava que-stioni legate alla tassazione e alla coscrizione. Fu infatti istituita una milizia e buona parte della popolazione venne disarmata. Verso la metà del 1981 le operazioni militari sovietiche e governative cessarono nell’Hazarajat; la leadership della Shura, insieme a un gruppo di sheikh (islamisti formatisi in Iran), lanciò una brutale campagna per eliminare la vecchia guardia politi-ca. Inizialmente l’indipendenza amministrativa fu salutata con favore dalla popolazione anche se, ben presto, la Shura cominciò a divenire impopolare perché troppo repressiva e corrotta. Una dura guerra interna, che costò molte vite, ebbe luogo in quegli anni nell’Hazarajat. Nel 1989 venne istitu-ito l’Hezb-e wahdat (“Partito dell’unità”) che, pur senza rompere i legami con l’islamismo, cominciò a porre particolare enfasi sull’appartenenza etni-ca e sui diritti degli hazara.39 Di lì a poco, tuttavia, una nuova piaga sarebbe stata inflitta agli hazara per mano dei talebani, particolarmente aggressivi nei confronti di questa minoranza sciita.40

Nello scenario politico attuale questi frammenti storici ricompongo-no nel loro insieme un quadro dal quale trasudano senso di appartenen-za, desiderio di riscatto e volontà di affermazione politica. «Tutto quello che abbiamo ottenuto lo abbiamo sempre ottenuto combattendo» sembra essere uno slogan virale tra molti hazara ai giorni d’oggi. Che fosse per motivi di difesa e sopravvivenza, di riorganizzazione politica interna o di fuga, la chiamata alle armi ha sicuramente pervaso il senso di collettività delle comunità hazara, almeno dalla metà del Diciannovesimo secolo in poi. Particolare attenzione merita la “scelta” della guerra come mezzo per evadere da una condizione di vita considerata inaccettabile. Benché assen-

39  A. De Lauri, Afghanistan, cit., pp. 248-249; K.B. Harpviken, Trascending Traditionalism:

The Emergence of Non-State Military Formations in Afghanistan, «Journal of Peace Research», 34,

(3), 1997, pp. 271-287.

40  Gli hazara – considerati dai talebani dei munafaqeen, degli ipocriti, lontani dal vero islam – subirono duramente il regime talebano. Solo nell’agosto del 1998, a Mazar-i-sharif, furono uccisi circa 8000 hazara in quello che viene ricordato come un vero e proprio mas-sacro. Sul regime talebano si vedano R.D. Crews – A. Tarzi (eds.), The Taliban and the Crisis of Afghanistan, Harvard University Press, Cambridge, 2008; W. Maley (ed.), Fundamentalism Reborn? Afghanistan under the Taliban, New York University Press, New York, 1998; A. Misra, The Taliban, Radical Islam and Afghanistan , «Third World Quarterly», 23, (3), 2002, pp. 577-589; A. Rashid, Taliban: Militant Islam, Oil and Fundamentalism in Central Asia, Yale University Press, New Haven, 2000.

te dai dibattiti specialistici, quella degli hazara è una vicenda comparabile ad altri casi ben più presenti nella letteratura su guerra e schiavitù.41 Sono essenzialmente tre le grandi questioni in gioco: la guerra come mezzo per schiavizzare; la partecipazione alla guerra come via di fuga dalla schiavitù e dall’asservimento (e dalla povertà, dall’isolamento…); la produzione di marginalità estrema, cioè di “nuovi schiavi” da poter utilizzare in guerra. Sono chiaramente problematiche strettamente collegate tra loro che rive-lano l’inesorabile nesso che esiste tra il sistema della guerra e la costante presenza di esseri umani a disposizione.42

Nelle guerre imperiali del Diciottesimo secolo vi erano due tipi di schiavi -soldato: coloro che furono costretti a impugnare le armi e coloro che lo fecero senza il consenso dei padroni. È questa seconda categoria che diventa rilevante nel tentativo di seguire la linea rossa che unisce la guerra a un (presunto) processo di emancipazione individuale e collettiva. Certamente, come è stato osservato,43 qualche soldo, uno stomaco pieno e una uniforme costituivano una potente fonte di attrazione, specialmente per gli schiavi posti al gradino più basso della gerarchia sociale. Ma non è da dare per scontato, tuttavia, il passaggio dalla “fuga dalla schiavitù” alla disponibilità a combattere in guerra. Nonostante potrebbe apparire facil-mente intuibile che essere un soldato sia meglio di essere uno schiavo o un emarginato, vi è da considerare un ulteriore, bensì cruciale, elemento, cioè che il soldato non solo rischia la propria vita in battaglia, ma è disposto a uccidere (talvolta per motivi estranei al proprio vissuto quotidiano). Si tratta di un aspetto della condizione umana che sarebbe superficiale consi-derare acriticamente. Non posso qui concentrarmi sulla propaganda politi-

41  Si vedano per esempio R. Bessel – N. Guyatt, J. Rendall (eds.), War, Empire and Slavery,

1770-1830, Palgrave, Richmond, 2010; D.A. Blackmon, Slavery by Another Name. The Re-enslave-ment of Black Americans from the Civil War to World War II, Anchor Books, New York, 2009; P. Blanchard, Under the Flags of Freedom: Slave Soldiers and the Wars of Independence in South America, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh, 2008; G. Boritt – S. Hancock (eds.), Slav-ery, Resistance, Freedom, Oxford University Press, Oxford, 2007; D.P. Geggus, Slavery, War, and Revolution. The British Occupation of Saint Domingue, 1793-1798, Clarendon Press, Oxford, 1982; A. Isaacman, D. Peterson, Making the Chikunda: Military Slavery and Ethnicity in Southern Africa, 1750-1900, «The International Journal of African Historical Studies», 36, (2), 2003, pp. 257-281; D.H. Johnson, Recruitment and Entrapment in Private Slave Armies: The Structure of the Zarä’ib in the Southern Sudan, «Slavery and Abolition: A Journal of Slave and Post-Slave Studies», 13, (1), 1992, pp. 162-173; D.H. Johnson, The Structure of a Legacy: Military Slavery in Northeast Africa, «Ethnohistory and Africa», 36, (1), 1989, pp. 72-88; M.J. Jok, War and Slavery in Sudan, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 2001; A. La Rocca, Liberi e schiavi nella prima guerra servile di Sicilia, «Studi storici», 45, (1), 2004, pp. 149-167; A.R. Meyers, Slave Soldiers and State Politics in Early ‘Alawi Morocco, 1668 – 1727, «The International Journal of African Historical Studies», 16,

(1), 1983, pp. 39-48; D.J. Meyers, And the War Came. The Slavery Quarrel and the American Civil War, Algora Publishing, New York, 2005.

42  Riprendo qui l’efficace definizione utilizzata da Kevin Bales per narrare le contempo-ranee forme di sfruttamento nell’economia mondiale; si veda K. Bales, Disposable People. New Slavery in the Global Economy, University of California Press, Los Angeles, 2004.

43  D.P. Geggus, Slavery, War, and Revolution, cit.

ca, sulle forme di strumentalizzazione e sul potere di “gestire” la guerra.44 Vorrei invece mettere in evidenza una questione tendenzialmente data per scontata nella sopra menzionata letteratura su guerra e schiavitù, vale a dire l’idea che la guerra, e quindi l’uccisione di altri esseri umani, possa essere concepita come qualcosa di accettabile, forse anche auspicabile, per un aspirante soldato, nella misura in cui implichi un effetto emancipato-rio. È chiaramente un aspetto su cui, ancora nei conflitti odierni, gruppi combattenti e governi fanno leva per legittimare il conflitto e arruolare “soldati”.

Se la storia moderna degli hazara, come accennavo, è una storia di persecuzione, lo è anche di guerra e volontà di emancipazione, due tratti dell’umanità apparentemente distanti ma, in realtà, legati da un filo sottile. Le due principali “strategie” emancipatorie degli hazara sono storicamen-te state la migrazione e, secondo un meccanismo diverso, l’arruolamento. Agli inizi del Ventesimo secolo, giovani hazara furono arruolati nell’eserci-to indiano, l’Indian Army.45 Il reggimento degli hazara pioneers nacque nel 1904 a Quetta e fu sciolto nel 1933. Il generale di brigata dell’Indian Army, N. L. St. Pierre Bunbury, scrisse nel 1949 un breve libretto dedicato a questo gruppo di soldati: 46

Essendo trascorsi sedici anni da quando gli hazara pioneers furono congedati, ri-tengo che una breve storia di questi uomini e del loro reggimento, scritta prima che la memoria sbiadisca, possa essere di qualche interesse. Data la scarsa docu-mentazione a disposizione, non è stato possibile fare di più di questo breve reso-conto. Spero comunque che possa essere d’aiuto a coloro interessati agli hazara per rivivere memorie felici di chi ebbe il privilegio di servire al fianco di questi splendidi uomini.47

44  Per una riflessione antropologica più articolata sulla guerra si vedano A. De Lauri (ed.), War, «Antropologia, XIII», 16, 2013; J. Haas (ed.), The Anthropology of War, Cambridge University Press, Cambridge, 1990; L. Jourdan (ed.), Etnografie della guerra e del post-guerra, «Antropologia», 2, (1), n.s., 2015; K.F. Otterbein, The Anthropology of War, Waveland Press, Long Grove, 2009.

45  Esiste una interessante letteratura sull’Indian Army. Qui segnalo O. Khalidi, Ethnic Group Recruitment in the Indian Army: The Contrasting Cases of Sikhs, Muslims, Gurkhas and Others, «Pacific Affairs», 74, (4), 2002, pp. 529-552; P.E. Razzel, Social Origins of Officers in the Indian and British Home Army: 1758-1962, «The British Journal of Sociology», 14, (3), 1963, pp. 248-260; K. Roy, Recruitment Doctrines of the Colonial Indian Army: 1859-1913, «The Indian Economic and Social History Review», 34, (3), 1997, pp. 321-354; K. Roy, The Construction of Regiments in the Indian Army: 1859-1913, «War in History», 8, (2), 2001, pp. 127-148.

46  Per una generale comprensione del quadro storico e della variegata composizione dell’esercito indiano si vedano J. Donovan, India’s Army, Shubhi Publications, Gurgaon, 1999; T.A. Heathcote, Indian Army: The Garrison of British Imperial India, 1822-1922, David&Charles PLC, Devon, 1974; J. Gaylor, Sons of John Company: The Indian and Pakistan Armies 1903-91, Spellmount, UK, 1992; M. Philip, A Matter of Honour: An Account of the Indian Army, Its Officers and Men, Papermac, 1986; S. Singh, Battle Honours of the Indian Army, 1757-1971, Vision Books, New Delhi, 1993.

47  N.L. St. P. Bunbury, A Brief History of the Hazara Pioneers, 1949, pp. 3-4.

Dopo aver abbozzato una (a tratti oggettivante e culturalista) “presen-tazione” degli hazara, Bunbury scriveva:

In tempi normali un considerevole numero di hazara era solito approdare in India per poter lavorare, specialmente in mestieri duri come il minatore, etc. Nel 1903-1904, tuttavia, a causa della persecuzione estrema perpetrata dagli afgani [pa-shtun], grandi ondate di rifugiati hazara si riversarono in India. Fu proprio mentre attraversava la frontiera che, nel 1904, Lord Kitchener, al tempo comandante in capo in India, ordinò al maggiore C. W. Jacob di formare un battaglione di haza-ra pioneers. In precedenza, gli unici hazara presenti nell’esercito indiano erano i membri delle 124° e 126° fanterie baluchi e alcune truppe della cavalleria.48

In fuga dalla persecuzione, gli hazara trovarono rifugio nell’esercito indiano. Qui la vita era comunque dura e continuamente messa in peri-colo, ma libera di essere vissuta dignitosamente (nei termini della retorica militaresca).

A partire dalla guerra del 1914-1918, fu sempre più difficile reclutare hazara pro-venienti dall’Hazarajat. La maggior parte delle nuove reclute veniva dalle colonie stanziate nell’area di Meshed. A questi uomini, tuttavia, mancavano le qualità mi-gliori di cui disponevano invece gli hazara provenienti dagli altipiani afgani. La difficoltà nel reperire nuove forze di questo tipo era dovuta principalmente a un cambiamento degli afgani [pashtun] nei confronti degli hazara che non erano più trattati malamente ed erano ora liberi di arruolarsi nell’esercito afgano. Inoltre, il governo afgano chiese al governo indiano di non arruolare più hazara nell’esercito indiano. Di conseguenza, con lo scioglimento degli hazara pioneers, nessun haza-ra fu più arruolato nell’esercito indiano.49

Al di là del fatto che, a ben vedere, le relazioni tra pashtun e hazara in patria continuavano a essere difficili, gli hazara pioneers rappresentava-no di fatto una generazione spinta tra le braccia dell’esercito dalle gravi condizioni di vita cui erano costretti. In un recente articolo Linda Green 50 ha spiegato come gli Yup’ik (popolazione nativa del Nord America) che si arruolano nelle forze armate americane siano intrappolati in un duplice movimento: da un lato la loro marginalità sociale li rende “persone dispo-nibili” per la guerra, dall’altro l’arruolamento diventa uno strumento per tentare di sfuggire alla povertà, alla disoccupazione, all’esclusione sociale. Tuttavia si tratta di un tentativo destinato a fallire poiché la guerra produce a sua volta cicatrici che permangono ben oltre il conflitto armato rigene-rando, pertanto, forme di umanità che, estendendo la riflessione di Guha,51 vengono relegate ai limiti della narrazione storica.

48  Ivi, p. 10.

49  Ivi, pp. 13-14.

50  L. Green, Betwixt and Between: Yup’ik Combat Soldiers and the Burden of Wars, «Antropo-logia», XIII, 16, 2013, pp. 113-132.

51  R. Guha, History at the Limit of World-History, Columbia University Press, New York, 2002.

Emancipazione?

Presso i National Archives di Kew Garden (Regno Unito) sono reperibili i documenti relativi alle numerose medaglie ricevute dagli hazara pioneers durante il servizio prestato. Medaglie che simboleggiano in qualche modo il riscatto hazara da una condizione di emarginazione e asservimento, ma che, allo stesso tempo, rievocano i tumulti e le perdite umane delle batta-glie. Sembra impossibile, infatti, sfuggire alla logica descritta da Green: la rincorsa all’emancipazione attraverso la “via delle armi” finisce inevitabil-mente col riprodurre le condizioni di miseria che hanno originariamente motivato la stessa chiamata alle armi.

Per comprendere tutte le implicazioni in gioco nella dinamica asservi-mento-guerra-emancipazione occorre esplorare le conseguenze di lunga durata prodotte dal modo in cui ci si emancipa. Nell’aprile del 2008, al termi-ne di un’udienza tenutasi presso la Corte del Secondo Distretto di Kabul, un anziano hazara, commentando le disavventure giudiziarie della propria fa-miglia, mi disse: «Non si può rimediare all’ingiustizia sempre con il pugno. Noi lo sappiamo bene». Mi piace pensare, a distanza di anni, che quel “noi” facesse riferimento a un orizzonte più ampio rispetto alla famiglia. Riper-correre la storia degli hazara significa in una certa misura confrontarsi con questo inesorabile meccanismo di riproduzione di “umanità a disposizio-ne”. Per evitare rigide campagne di asservimento, vere e proprie ondate di hazara hanno migrato e migliaia hanno combattuto. La reiterazione di una storia di emancipazione collettiva continuamente riproiettata nel futuro è divenuta una sorta di feticcio che ha fornito alla logica del conflitto una for-za non solo legittimante, ma anche “attraente”. Ciò appare ancor più vero se si considera che, quando non impegnati a combattere contro aggressori esterni, gli hazara combattevano tra di loro (si pensi alle violenze esercitate nella seconda metà del Ventesimo secolo allo scopo di rifondare politica-mente l’Hazarajat). Alessandro Monsutti ha osservato il modo in cui, no-nostante i conflitti interni durante questo periodo e le dure implicazioni dei combattimenti e delle migrazioni forzate, «la guerra ha paradossalmente aperto nuove porte per gli hazara che hanno di conseguenza vissuto un processo di accrescimento politico ed economico». Oggi, aggiunge Mon-sutti, «hanno guadagnato un ruolo sulla scena nazionale che non erano mai riusciti a conquistare fin dalla loro incorporazione nello Stato afgano 52 alla fine del Diciannovesimo secolo».53 Tuttavia, la capacità di aspirare al futu-ro 54 è rimasta vincolata, in tali circostanze, alla ripetitività della violenza

52  Su questo aspetto si veda anche N. Ibrahimi, Shift and Drift in Hazara Ethnic Conscious-ness, cit.

53  A. Monsutti, “Hazara History”, cit.

54  A. Appadurai, Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale, Raffaello Corti-na, Milano, 2014 [2013].

collettiva e dell’ambizione di potere. Appare, in tal senso, particolarmente appropriata la lezione di Augé in Poteri di vita, poteri di morte: 55 l’emancipa-zione politica è nutrita dal desiderio di (ri)affermazione individuale e, per estensione, dalla necessità collettiva di respingere il potere che significa, a sua volta, rivendicarlo. Così intesa l’emancipazione politica può dirsi com-piuta allorché sia conquistato il potere, ma ciò costringe, come nel caso degli hazara, l’idea di emancipazione all’interno di un circolo vizioso.

Quella che Mats Utas ha chiamato rimarginalizzazione degli ex-com-battenti potrebbe applicarsi alle comunità hazara presso le quali la povertà e la mancanza di opportunità hanno mantenuto vivo quel continuum tra condizioni di guerra e di pace.56 Dietro la facciata di un’emancipazione col-lettiva guadagnata, linguaggio che i leader hazara reiterano nelle attuali campagne politiche, permangono profondi problemi economici e sociali nonché relazioni entico-politiche difficili con altri gruppi. La storia degli hazara spinge a confermare che, attraverso il ricorso alla guerra e alla vio-lenza collettiva, la possibilità di immaginare un futuro sociale svincolato da una visione del mondo estremamente gerarchizzata e sopraffatta dal desi-derio di “dominio” rimane impresa ardua. L’emancipazione etnico-politica potrebbe apparire, in questa dinamica, come il mantello sotto il quale le “ombre della schiavitù” e le “ombre della guerra” tendono a confondersi.

È bene specificare, a questo punto, la nozione stessa di emancipazione.57 Ernesto Laclau 58 ha individuato alcune caratteristiche, tra le quali: 1) la di-mensione olistica dell’emancipazione (cioè il suo “pervadere” ogni aspetto della vita sociale); 2) la pre-esistenza di ciò da cui occorre emanciparsi (non c’è emancipazione, sottolinea Laclau, in mancanza di oppressione e non c’è oppressione senza che vi sia qualcosa cui viene negato, da forze oppressive, il libero sviluppo. Per questo motivo l’emancipazione non è un atto creativo, ma un atto di liberazione); 3) la “dimension of ground” (per essere compiuto,

55  M. Augé, Poteri di vita, poteri di morte. Introduzione a un’antropologia della repressione, Raf-faello Cortina, Milano, 2003 [1977].

56  M. Utas, Building a Future? The Reintegration and Remarginalization of Youth in Liberia, in No Peace, No War. An Anthropology of Contemporary Armed Conflicts, a cura di P. Richards, Ohio University Press, Athens, 2005.

57  Per approfondimenti sul concetto di emancipazione e del suo legame con schiavitù/ guerra si vedano S. Beckert, Emancipation and Empire: Reconstructing in Worldwide Web of Cotton Production in the Age of the American Civil War, «American Historical Review», 109, (5), 2004,

  1. 1405-1438; I. Berlin et alii, Slaves No More. Three Essays on Emancipation and the Civil War, Cambridge University Press, Cambridge, 1992; Slavery and South Asian History, a cura di I. Chat-terjee, R.M. Eaton, Indiana University Press, Bloomington, 2006; W. Dooling, Slavery, Emanci-pation and Colonial Rule in South Africa, Ohio University Press, Athens, 2007; R.L. Ransom, Con-flict and Compromise: The Political Economy of Slavery, Emancipation, and the American Civil War, Cambridge University Press, Cambridge, 1989; J. Stephenson, Emancipation and Its Problems: War and Society in Württemberg 1939-45, «European History Quarterly», 17, (3), 1987, pp. 345-365; H. Temperley (ed.), After Slavery. Emancipation and Its Discontents, Frank Cass Publishers, Portland, 2000.

58  E. Laclau, Emancipation(s), Verso, London, 1996.

un processo emancipatorio deve aver luogo nella sua concretezza, in una piena dimensione sociale). Quest’ultima caratteristica fornisce sicuramente spunti di riflessione in relazione alla vicenda hazara: che tipo di emanci-pazione ha avuto luogo attraverso la guerra? Quale idea di emancipazione ha potuto affermarsi? Se da un lato è stato possibile, per certe fasce della popolazione hazara, conquistare un ruolo politico a livello nazionale, quella che Laclau chiama “dimension of ground” è probabilmente mancata. E, se siamo d’accordo con lo studioso argentino nel sostenere che l’emancipa-zione diviene contraddittoria qualora sopravviva un residuo di oppressione che rimane al di là delle capacità trasformative delle pratiche emancipatorie, allora potremmo riconoscere che il presunto processo di emancipazione de-gli hazara risulta quantomeno problematico dal momento che molti vivono ancora oggi non solo in condizioni di povertà e impossibilità di accesso alle risorse, ma subiscono anche forme politiche e religiose di discriminazio-ne e marginalizzazione. Tali riflessioni permettono di ricondurre in senso comparativo la storia degli hazara agli studi sulla complessa relazione tra “post-schiavitù” ed emancipazione 59 rifiutando comunque quelle analisi che, centrate sull’atto pubblico-giudirico che aboliva formalmente la schia-vitù, hanno teso a ignorare proprio la “dimension of ground”.

Conclusioni

La vicinanza tra emancipazione collettiva e ricerca della dignità umana 60 potrebbe essere meno scontata di quanto si possa pensare. Se un proces-so di emancipazione collettiva attraverso la guerra può implicare rilevanza politica e riconoscimento di diritti sulla carta, più difficilmente può porta-re dignità e libertà effettiva a coloro che combattono in quanto la guerra

59  Si vedano tra gli altri S.L. Engerman, Slavery and Emancipation in Comparative Perspective: A Look at Some Recent Debates, «The Journal of Economic History», 46, (2), 1986, pp. 317-339; L.E. Horton, From Class to Race in Early America: Northern Post-Emancipation Racial Reconstruc-tion, «Journal of the Early Republic», 19, (4), 1999, pp. 629-649; K.F. Olwig (ed.), Small Islands, Large Questions. Society, Culture and Resistance in the Post-Emancipation Caribbean, Routledge, Abingdon, 2013; P.W. Romero, Where Have All the Slaves Gone? Emancipation and Post-Emancipa-tion in Lamu, Kenya, «Journal of African History», 27, (3), 1986, pp. 497-512; Racism and Colonial-ism, a cura di R. Ross, Martinus Nijhoff Publishers, Leiden, 1982; A.D. Stanley, From Bondage to Contract. Wage Labor, Marriage, and the Market in the Age of Slave Emancipation, Cambridge University Press, Cambridge, 1998.

60  Sul concetto, talvolta ambiguo, di dignità umana si vedano per esempio Sanctity of Life and Human Dignity, a cura di K. Bayertz, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/ London, 1996; G. Collste, Is Human Life Special? Religious and Philosophical Perspectives on the Principle of Human Dignity, Peter Lang, Bern, 2002; J. Habermas, The Concept of Human Dig-nity and the Realistic Utopia of Human Rights, «Metaphilosophy», 41, (4), 2010, pp. 464-480; J. Malpas – N. Lickiss (eds.), Perspectives on Human Dignity: A Conversation, Springer, Dordrecht, 2007; M. Rosen, Dignity: Its History and Meaning, Harvard University Press, Cambridge, 2012; H. Spiegelberg, Human Dignity: A Challenge to Contemporary Philosophy, «World Futures: The Journal of New Paradigm Research», 9, (1-2), 1971, pp. 39-64.

ha la capacità di riprodurre, in forme differenti, condizioni di marginalità, precarietà e isolamento. Olivier Pétré-Grenouilleau 61 ha ribadito come le strategie di fuga da situazioni di asservimento abbiano spesso l’effetto di ri-produrre gli stessi “sistemi schiavisti” sia a livello “demografico” sia a livello “statutario”. Ciò comporta alcune fondamentali conseguenze tra le quali il fatto che, a poche “storie di successo”, si oppongono frequentemente processi di consolidamento delle iniquità sociali e, pertanto, possibilità di continuo sfruttamento umano. Le forme estreme di dipendenza e di ridu-zione in schiavitù nell’Afghanistan odierno attirano una certa attenzione da parte delle agenzie umanitarie che interpretano questi fenomeni come “nuove schiavitù” o come retaggi di forme passate di sfruttamento. Tut-tavia uno studio attento alla storia della schiavitù e dell’emancipazione in Afghanistan potrebbe rivelare come le forme attuali di asservimento siano, in maniera meno intuibile, strettamente collegate a processi emancipatori ambivalenti e fallimentari.

In Afghanistan, la sensazione di incertezza verso il domani provoca sentimenti di contrasto e di antagonismo. Il fantasma di un collasso del sistema rimane una paura diffusa per molti afgani e ciò ingenera forme di sopravvivenza che opprimono la percezione del futuro a vantaggio di un presente espulso dalla storia.62 L’emancipazione incompiuta degli haza-ra condensa alcuni tratti salienti della più generale storia dell’Afghanistan, un paese “fuori dal tempo” per alcuni o imprigionato in una condizione pre-moderna per altri. Un quasi-paese in cui le lotte intestine si sono inter-vallate con progetti imperialisti e coloniali (tra i più recenti quelli britannici, sovietici e americani). Gli hazara in Afghanistan sono specchio, attraverso un meccanismo paradossale e drammatico, di quello che è l’Afghanistan nel mondo. Se il legame che ho qui discusso tra asservimento, guerra ed emancipazione può servire da lente per comprendere la storia degli hazara, a un altro livello può fornire elementi utili per analizzare la storia stessa dell’Afghanistan che, nonostante un’indipendenza in procinto di compiere cento anni (2019), rimane, nello scenario geopolitico, un paese in bilico tra il collasso politico e la totale dipendenza (in senso economico e militare) da governi stranieri.

RIASSUNTO-SUMMARY

Questo articolo analizza il legame che intercorre tra politiche di asservimen-to, guerra ed emancipazione collettiva con particolare riferimento agli hazara, una minoranza etnico-religiosa dell’Afghanistan. L’obiettivo principale è quello di

61  O. Pétré-grenouilleau, Processes of Exiting the Slave Systems: A Typology, in Slave Sys-tems: Ancient and Modern, a cura di E. Dal Lago, C. Katsari, Cambridge University Press, Cam-bridge, 2008.

62  A. De lauri, Afghanistan, cit., p. 215.

mettere in evidenza le ambivalenze e le problematiche che hanno accompagnato il processo emancipatorio degli hazara, segnato dal ricorso alla guerra e alla vio-lenza su larga scala. Oggi l’asservimento politico subito dagli hazara costituisce un elemento fondamentale del loro ‘discorso politico’ e della loro identità collettiva. Tuttavia la retorica dell’emancipazione può essere fuorviante per comprendere i processi storici che hanno caratterizzato tanto la loro schiavitù quanto le loro ‘strategie di fuga’ dall’asservimento.

This article analyses the link between politics of enslavement, war and col-lective emancipation with particular reference to the Hazaras, an ethnic-religious minority of Afghanistan. The main objective of this paper is to highlight the am-bivalence and concerns that have accompanied the emancipatory process of the Hazaras – marked by war and large-scale violence. Today the political subjugation suffered by the Hazaras is a key element of their ‘political discourse’ and collective identity. However the rhetoric of emancipation can be misleading when used to understand the historical processes that have characterized Hazaras’ enslavement as well as their ‘exiting strategies’.

Direttore Responsabile

Prof. Pietro Clemente

Università degli Studi di Firenze

Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 140 del 17-11-1949

FINITO DI STAMPARE

PER CONTO DI LEO S. OLSCHKI EDITORE

PRESSO ABC TIPOGRAFIA • SESTO FIORENTINO (FI)

 

 

Un interessante articolo accademico a cura dell’antropologo Antonio De Lauri di cui riportiamo qui un estratto. Il testo intero in PDF è consultabile qui

“Gli hazara dell’Afghanistan tra asservimento, guerra ed emancipazione” – Antonio De Lauri – LARES Quadrimestrale di studi demoetnoantropologici vol. 2016/2

Gli hazara e la schiavitù

Nella prima metà del Diciottesimo secolo le popolazioni afgane si opposero ai safavidi conseguendo sempre maggiori vittorie in battaglia. Una svolta fondamentale, però, si ebbe nel 1747 quando, alla morte di Nadir Shah, Ahmed Khan venne nominato da una loya jirga (la “grande assemblea”) reggente delle confederazioni pashtun. Ahmed Khan passò alla storia come durr-e durran (“perla delle perle”) e anche la confederazione cui apparteneva prese il nome “durrani”. Il 1747, dunque, viene considerato l’anno di nascita dell’Afghanistan, anche se dovette trascorrere molto tempo prima che una forma statale più o meno identificabile, quale l’Afghanistan che oggi conosciamo, facesse la propria comparsa. Ahmed Khan, il quale cambiò successivamente titolo in Ahmed Shah, controllava un regno che non poteva definirsi, infatti, uno Stato vero e proprio.

Era il consenso delle tribù che, in quanto prodotto di alleanze politiche, conferiva ad Ahmed Shah la possibilità di regnare all’interno di un contesto facilmente “infiammabile”. Come sempre accade, comunque, anche in questo caso la profondità storica degli intrecci etnico-regionali, delle forme di contatto e di oppressione, così come delle scelte di organizzazione politica collettiva vanno ben oltre la data di nascita dell’Afghanistan. Come ha scritto Gianroberto Scarcia, l’Afghanistan non è, «neppure alla lontana, uno stato nazionale: è un piccolo impero multicolore, formato e mantenuto tale dalle vicende storiche, unitamente alla posizione geografica». In senso ristretto, il termine “afgani” è stato utilizzato dai gruppi di lingua persiana (ma più in generale dalle minoranze etnico-linguistiche) per indicare i pashtun, ma l’Afghanistan è abitato da numerosi altri gruppi di lingua uzbeka, turkmena, etc., per cui, per estensione, il termine “afgani” è venuto nel tempo a indicare l’insieme degli abitanti dell’Afghanistan. La complessa articolazione socio-demografica di questo paese, a ogni modo, rimane un tratto distintivo che ancora oggi influenza politiche locali e nazionali.

Nel 2007 Elisa Giunchi scriveva che, su una popolazione di circa 22 milioni di abitanti, si stimava la presenza di circa 50 gruppi etnici e una trentina di lingue parlate. Ma le statistiche sono sempre in evoluzione e oggi le stime parlano di una popolazione di circa 33 milioni di residenti. All’interno di questo vibrante e mutevole scenario gli hazara rappresentano una consistente, seppur decimata rispetto al passato, porzione di popolazione (circa il 9%), perlopiù collocata nella zona dell’Hindu Kush a ovest di Kabul, l’Hazarajat. Gli hazara sono una popolazione a maggioranza sciita di lingua persiana (le due lingue ufficiali dell’Afghanistan sono il dari – persiano – e il pashtu). Quali effettivamente siano le loro origini è tema assai dibattuto tra storici e scienziati sociali.

Alessandro Monsutti ha ricordato che tra gli hazara circolano soprattutto tre ipotesi: la prima stabilisce che si tratta di un gruppo discendente dai mongoli (o turco-mongoli) e forse direttamente dalle armate di Gengis Khan; la seconda ipotesi privilegia l’elemento di autoctonia degli hazara, per cui essi sarebbero stati presenti nella regione già prima delle invasioni indo-europee (2000-1500 a.C.); la terza ipotesi, che potremmo definire “realista”, si concentra sulle differenti ondate migratorie che avrebbero portato alla formazione di insediamenti hazara con differenti origini. Al di là della diatriba innescata da queste ipotesi e dal loro “significato culturale” posizionato, è importante ribadire che ogni dibattito sulle origini etniche è comunque destinato a dissolversi sul terreno della processualità storica nella misura in cui incroci e contaminazioni culturali hanno come esito quello di destrutturare e ristrutturare ogni elemento che potremmo ritenere “caratterizzante” dando forma a fenomeni sociali che gli antropologi hanno tendenzialmente descritto attraverso la metafora dell’ibridismo (culturale, linguistico…). Del resto la storia diventa particolarmente utile soprattutto allorché occorra legittimare, giustificare o semplicemente spiegare qualcosa di rilevante nel presente (o nel futuro).

Nel maggio 2013 un procuratore (saranwal) hazara a Kabul mi disse: «La nostra è in primo luogo una storia di persecuzione. La sofferenza che abbiamo subito nel passato ci unisce ancora oggi». Affermazioni di questo tipo sono piuttosto comuni in Afghanistan e nella diaspora hazara; nel marzo 2013 un afgano hazara residente a Berlino mi ribadì quanto dura fosse stata l’esperienza talebana, «in particolar modo per noi hazara, che già in passato eravamo stati ridotti in schiavitù dai pashtun». Nella lingua dari il termine usato per indicare la schiavitù è bardagi (lo schiavo è barda), mentre i pashtun utilizzano più frequentemente ghulami (ghulam per indicare uno schiavo). La difficile reperibilità di documenti e testi al riguardo, comunque, permette di affrontate la storia della schiavitù in Afghanistan in maniera perlopiù frammentaria. Tale scarsità di fonti è a mio avviso riconducibile alla specificità del contesto centro-asiatico piuttosto che all’influenza islamica, come molti ritengono.

Benjamin Hopkins, per esempio, ha scritto che la schiavitù in Asia Centrale era ancora un’attività vivace agli inizi del Diciannovesimo secolo sebbene l’esigua letteratura al riguardo indurrebbe a pensare altrimenti. Secondo Hopkins ciò sarebbe legato a tutta una serie di sottostudiate questioni connesse alla schiavitù nel mondo musulmano. È opportune sottolineare, tuttavia, che gli studi sulla schiavitù nel mondo musulmano sono stati piuttosto ampi, soprattutto se confrontati alle ricerche condotte in altri contesti. Come ha ricordato William Gervase Clarence-Smith, cristianesimo e islam hanno storicamente attirato un’attenzione sproporzionata rispetto a giudaismo, animismo, buddismo, giainismo, induismo e confucianesimo. Ora, per quanto la schiavitù e, più in generale, le politiche di asservimento non siano state sufficientemente analizzate nella storia dell’Afghanistan, queste hanno sicuramente giocato un ruolo importante nel contesto delle relazioni interetniche, nel succedersi delle diverse dinastie nonché nel processo di formazione dello Stato afgano.

Nella seconda metà del Diciannovesimo secolo Abdur Rahman (emiro dal 1880 al 1901), con lo scopo di centralizzare il potere e controllare le aree ancora autonome, intraprese una campagna militare nell’Hazarajat favorendo la penetrazione di nomadi pashtun e inasprendo le relazioni tra sciiti e sunniti. La guerra di Abdur Rahman nell’Hazarajat comportò un elevato numero di vittime e l’asservimento di diverse famiglie hazara. Le terre vennero confiscate e molti furono venduti a Kabul  dove furono impiegati perlopiù in qualità di servi domestici. Da Kabul alcuni vennero spostati nuovamente, come si evince per esempio dalla lettura dei “Diaries of Kandahar”. Hazaras in the View of British Diaries (1884-1905). Apprendiamo qui che, nel 1891, l’emiro ordinò l’invio di 1300 prigionieri hazara a Kandahar affinché fossero distribuiti come schiavi ai pahstun barakzai, alikozai e nurzai. Sebbene Abdur Rahman avesse bandito la schiavitù sul finire del Diciannovesimo secolo, proprio quando il “grande gioco” (o il “torneo delle ombre”) cominciava a spostarsi verso Est, molti hazara rimasero di fatto schiavi fino a quando Amanullah, nipote di Abdur Rahman, abolì la schiavitù prima con un decreto nel 1921 e poi con la Costituzione approvata nel 1923, la prima nella storia del paese.

Ciò non significava, tuttavia, che dinamiche di riduzione in schiavitù fossero destinate a sparire. Piuttosto, l’asservimento di natura etnico-politica e religiosa (legato a logiche di centralizzazione del potere) andava a intrecciarsi in maniera sempre più evidente a squilibri sociali di natura economica. L’asservimento degli hazara ha storicamente avuto carattere multiforme restando un fenomeno in bilico tra la persecuzione religiosa e politica, una normativa opaca o assente e una regolamentazione interna non del tutto definita. Una situazione, del resto, non unica nella regione. Non a caso, come ha sottolineato Hopkins, la schiavitù in Afghanistan, come in altre aree dell’Asia Centrale, non era sempre di- stinguibile dalla persecuzione politica o dal dislocamento forzato. Parlando della schiavitù in Afghanistan taluni riferiscono di un fenomeno raro, altri sottolineano quanto fosse in conflitto con il codice di comportamento dei pashtun, il pashtunwali, che celebra l’autonomia e l’indipendenza dell’individuo. Le memorie della diaspora hazara, che attraversano diversi regni e regimi, unite ai racconti e ai canti in patria, narrano comunque di una politica di asservimento protrattasi per molto tempo ed esercitata, anche in precedenza, non solo dai pashtun, ma dagli uzbechi e dai turkmeni: «giù nel regno di Amir Sher ‘Ali Khan, uzbechi e turkmeni schiavizzano gli hazara e li vendono in Asia Centrale».

Il fenomeno della schiavitù nelle terre che oggi chiamiamo Afghanistan non è limitato, in ogni caso, alle politiche di assoggettamento degli hazara. La schiavitù era presente nei regni che precedettero l’ascesa di Ahmed Khan nel 1747 così come nelle altre aree sulle quali si estese poi il “pugno di ferro” di Abdur Rahman. Nella regione nota come Kafiristan (“terra degli infedeli”), che l’emiro conquistò, convertì e ribattezzò Nuristan (“terra della luce”), la popolazione viveva in villaggi situati ai piedi delle colline all’interno dei quali vigeva una linea di demarcazione tra “tribali” e “non-tribali”, una distinzione che corrispondeva grosso modo alla divisione della società in liberi (atrogen) e schiavi (borjan). Questi ultimi erano divisi a loro volta in bari e showala e potevano essere artigiani o domestici. Erano di proprietà delle famiglie ed erano stati schiavizzati dai kafiri durante le guerre. La posizione degli schiavi-artigiani era migliore poiché disponevano di proprietà ed erano molto importanti per la comunità per via delle loro capacità in quanto carpentieri, conciatori, tessitori, etc. La violenta conquista a opera di Abdur Rahman sovvertì rapidamente l’ordine sociale dei kafiri e poco si sa sulla “sopravvivenza” di certe pratiche e certe strutture sociali (ufficialmente gli schiavi vennero liberati).

“Schiavi” in guerra

Il sito web www.hazararights.com contiene una lettera, disponibile in più lingue e firmata da poeti di tutto il mondo, indirizzata al Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, al Presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso e al Presidente degli Stati Uniti Barack Obama in cui si legge, tra il resto:

Dopo più di un secolo di crimini sistematici come il genocidio, la schiavitù, gli abusi e le violenze sessuali, i crimini di guerra e le discriminazioni, essere hazara appare ancora oggi un crimine in paesi come l’Afghanistan e il Pakistan. […] Nel corso di questo secolo hanno sofferto il genocidio e la schiavitù e sono stati obbligati con la violenza ad abbandonare le loro terre, situate nel sud del moderno Afghanistan. Più del 60% di questa popolazione è stata uccisa e migliaia di loro sono stati venduti come schiavi. L’intera storia del XX secolo in Afghanistan è stata contrassegnata dalle uccisioni e dalle discriminazioni nei confronti di questo popolo.

Il testo intero in PDF è consultabile al sitohttps://www.cmi.no/publications/file/6042-gli-hazara-dellafghanistan-tra-asservimento.pdf

In this article

Join the Conversation